Siamo tutti pro-Palestina. Ma chi l’ha deciso per noi?
Intro – “Condividi se sei umano.”
Ma se fossi solo parte di una macchina emotiva?
Nel 2025, se non hai postato almeno una volta la bandiera palestinese, ti senti in colpa.
Se non hai scritto From the River to the Sea, ti senti complice.
Se non hai pianto davanti a un video da Gaza, ti senti freddo. Sbagliato. Disumano.
Ma ecco la vera domanda:
ci indignamo per scelta… o per protocollo?
Nell’ultimo anno, la narrativa pro-Palestina ha invaso strade, campus e feed digitali.
Ma quanto di tutto ciò è vera consapevolezza politica?
E quanto è il risultato di ingegneria algoritmica, ideologica e geopolitica che a malapena notiamo?
1. L’algoritmo dell’indignazione
Gaza sta bruciando. Le immagini parlano da sole: bambini sotto le macerie, madri che urlano, ospedali bombardati.
I social non sono una finestra sul mondo. È un teatro emotivo, pre-programmato per catturarti.
Emozioni forti = click
Click = tempo di visione
Tempo di visione = profitto
La giustizia diventa virale solo se è monetizzabile.
Una tragedia più devastante ma con meno impatto visivo? Non la vedrai mai in tendenza.
2. 2024: la Palestina è una tenda, non una bandiera
Nel 2024, il simbolo della solidarietà palestinese non è più il keffiyeh o la bandiera.
È una tenda – montata sui prati universitari da Harvard a Bologna, da Columbia a Sciences Po.
Gli studenti protestano contro i legami delle loro università con i produttori di armi. Chiedono disinvestimenti. Denunciano l’apartheid.
Tutto sembra spontaneo, idealistico, orizzontale.
Ma scava sotto la superficie e vedrai la macchina.
- Collettivi studenteschi legati ad organizzazioni radicali
- ONG finanziate dall’estero e fondazioni filantropiche
- Reti internazionali ben oliate e – in alcuni casi – influenza governativa
Sì, la spontaneità esiste. Ma è incanalata, guidata e sistematizzata.
In molti campus, la causa palestinese si fonde con un crogiolo di lotte basate sull’identità: queer theory, decolonialismo, diritti degli animali, ambientalismo anticapitalista.
Gaza diventa una piattaforma morale, un totem simbolico che ospita decine di battaglie spesso non correlate.
La Palestina non è più una causa geopolitica – è un contenitore.
Uno strumento per legittimare agende ideologiche preesistenti attraverso sincretismo strategico.
Allora chi imposta la narrativa? Chi sceglie gli slogan?
Non sempre gli studenti. Non sempre i palestinesi.
In questa logica, la protesta diventa branding, l’attivismo diventa performance e la solidarietà diventa narrazione:
emotiva, potente – ma raramente libera.
3. Gli Stati arabi: solidarietà a parole, accordi nei fatti
- Il Qatar finanzia Hamas e ospita i suoi leader, ma è anche un importante alleato militare statunitense nel Golfo.
- 🇪🇬 L’Egitto proclama solidarietà ma blocca regolarmente gli aiuti umanitari al valico di Rafah – in nome della stabilità nazionale e del controllo del Sinai.
- 🇸🇦 L’Arabia Saudita e 🇦🇪 gli Emirati Arabi Uniti stringono accordi da miliardi di dollari in tecnologia, difesa ed energia con Israele grazie agli Accordi di Abramo.
- L’Iran sostiene apertamente la resistenza – non per amore dei palestinesi, ma per sfidare il potere israeliano e statunitense nella regione.
Questi regimi usano la Palestina come leva retorica, non come causa strategica.
La sfruttano per legittimarsi internamente, dando priorità alla sopravvivenza del regime e al vantaggio economico.
Nel frattempo, i cittadini arabi osservano la tragedia sui loro schermi, scorrendo Instagram e TikTok mentre i loro leader firmano accordi tattici con Tel Aviv, Pechino o Washington.
Questa è la nuova logica geopolitica: disincantata, transazionale, fluida.
La solidarietà è performance. L’identità è strategia.
Il valore della Palestina dipende da ciò che gli altri possono ottenere invocandola.

4. Lobby, media e propaganda: chi sta davvero vincendo la guerra narrativa?
Com’è possibile che l’influente lobby pro-Israele – capace di influenzare Hollywood, la politica statunitense e i media europei – stia perdendo là dove conta di più: nei cuori e nei feed delle persone?
Spoiler: non hanno perso. Il campo di battaglia è cambiato. E non combattono più da soli.
- La narrativa ufficiale: “Le lobby ebraiche controllano tutto”. C’è del vero: AIPAC spende milioni per il lobbying negli USA. Hollywood ha costruito decenni di narrazione sulla legittimità e la sopravvivenza di Israele.
- Il Qatar possiede Al Jazeera, una delle reti mediatiche globali più influenti, promuovendo una linea editoriale militante e finanziando ONG, influencer, accademici e think tank in tutto il mondo.
- L’Iran gestisce una rete di propaganda transnazionale rivolta a comunità anti-imperialiste e di sinistra.
- La Turchia spinge una narrativa di soft power per influenzare le comunità musulmane in Europa e nei Balcani.
Il messaggio pro-Palestina sembra reale. Crudo. Umano. Ti colpisce. È costruito per diffondersi. E funziona.
Questa è guerra informativa. Una guerra fredda di contenuti, emozioni e indignazione.
E noi? Noi siamo le armi.
5. Paradosso finale: manipolati e manipolativi
Il movimento pro-Palestina è forte – ma immerso in una zona grigia.
È manipolato dai suoi sostenitori.
E manipolativo perché ha perfezionato branding, storytelling e viralità.
Critichi Hamas? Sei islamofobo.
Metti in dubbio From the River to the Sea? Sei reazionario.
Chiedi sfumature? Sei problematico.
Il pensiero critico è la prima vittima della militanza performativa.
Conclusione: ognuno per sé, Gaza per tutti
Nel 2025, la Palestina è ovunque – nei feed, negli slogan, nei profili.
Ma è davvero di qualcuno?
Gli attivisti la usano come uno specchio per la loro politica identitaria.
I governi la usano come merce di scambio diplomatica.
I media la trasformano in contenuti emotivamente carichi.
Gaza è diventata il simbolo perfetto – di tutto tranne che di se stessa.
Perché una Palestina veramente libera, imprevedibile, autonoma?
Questo non serve a nessuno.
Meglio tenerla ferita. Evocabile. Utile.
🧩 Domanda finale – Pensi ancora che la tua opinione sia davvero tua?
Riflettici.
Da dove nasce la tua indignazione?
Perché prendi una parte?
Chi ti ha convinto che fosse quella giusta?
Il sostegno alla Palestina – assolutamente legittimo –
non può essere ridotto a marketing emotivo.
E Israele – per quanto imperfetto –
non può essere appiattito a un cattivo per i social media.
La verità non è qualcosa che sfogli.
È qualcosa che interroghi, cerchi e affronti.
Dubita di tutto. Anche di te stesso.