LA SOCIETÀ DELLA PERFOMANCE: GIORNALISTI ATTIVISITI E INFLUENCER
La fine della verità: tua realtà è una bolla. E quella bolla sta collassando su se stessa.
Ogni mattina apri lo schermo. L’algoritmo ti serve il mondo: non il mondo, ma il tuo mondo. Notizie che confermano ciò che già pensi. Video che rinforzano ciò che già credi. Post che rispecchiano chi hai già deciso di essere. Instagram ti mostra bellezza filtrata. TikTok ti intrattiene con verità digerite in 60 secondi. X ti immerge nella guerra culturale che hai scelto di combattere. LinkedIn ti vende il teatro della produttività.
Le piattaforme non sono più social network. Sono ecosistemi totalizzanti. Universi paralleli dove ogni tribù consuma la propria versione della realtà, respira la propria aria, parla la propria lingua. Non siamo più cittadini di una società comune che discute gli stessi fatti. Siamo abitanti di bolle impermeabili che si osservano con sospetto attraverso pareti algoritmiche.
Il conformismo algoritmico non è mai stato così totale. La polarizzazione non è mai stata così estrema. E nel mezzo di questo collasso — tra verità tribali e guerre di percezione — sta morendo qualcosa che pensavamo immortale: il giornalismo come lo conoscevamo.
ANATOMIA DELLA BOLLA: MEDIAPOLIS E VERITÀ FRAMMENTATA
Roger Silverstone, in Why Study the Media?, Ci racconta di una “mediapolis”, una comunità globale che vive in uno spazio mediatico, un ambiente condiviso dove culture diverse si incontrano e negoziano significati comuni. Una sorta di Torre di babele dove anche se siamo immersi nelle informazioni abbiamo smesso di riuscire a capirci e di ascoltare.
Per comprendere l’importanza strutturale delle reti di comunicazione Manuel Castells evidenzia come il potere oggi non sta più nel controllo dei mezzi di produzione o della violenza, ma nel controllo delle reti di comunicazione, nelle piattaforme dove si costruisce significato.
Nel campo giornalistico tradizionale, il capitale simbolico — la credibilità, l’autorevolezza — si accumulava attraverso pratiche specifiche: verifica delle fonti, separazione tra fatti e opinioni, accountability istituzionale. Il campo aveva regole. Chi le violava perdeva capitale simbolico.
Ma nei campi digitali frammentati, il capitale simbolico funziona diversamente. Non si accumula attraverso la verifica, ma attraverso la risonanza. Non attraverso l’accuratezza, ma attraverso l’autenticità percepita. Un influencer con 5 milioni di follower che ammette di non essere esperto ma “condivide la sua verità” ha più capitale simbolico — più potere di influenzare — di un giornalista del Times con 30 anni di esperienza.
Il campo si è rovesciato. Le regole che conferivano autorità sono diventate handicap.
L’EPISTEMOLOGIA DELL’INTRATTENIMENTO
Nel 1985, Neil Postman pubblicò Amusing Ourselves to Death. La tesi era semplice: la televisione non stava corrompendo il contenuto dell’informazione, stava corrompendo l’epistemologia stessa — il modo in cui sappiamo ciò che sappiamo.
Postman sosteneva che ogni medium privilegia determinati tipi di contenuto e determinate modalità di comprensione. La stampa favorisce l’argomentazione sequenziale, il ragionamento complesso, la riflessione. La televisione favorisce l’immagine, l’emozione immediata, il frammento.
Il problema non era che la TV trasmettesse contenuti banali. Il problema era che trasformava tutto in intrattenimento. Anche le notizie. Anche la politica. Anche il dibattito pubblico. Non perché i produttori fossero cinici, ma perché il medium richiede: immediatezza, impatto visivo, drammatizzazione, chiusura narrativa.
La distinzione tra “serio” e “intrattenimento” collassava. E con essa collassava la possibilità stessa di dibattito razionale basato su evidenze.
Postman stava descrivendo la TV. Ma aveva previsto TikTok.
Oggi il problema non è più solo che tutto diventa intrattenimento. È che tutto diventa engagement optimization. L’algoritmo non ha preferenze ideologiche o estetiche. Ha una sola metrica: quanto tempo tieni l’utente sulla piattaforma.
La ricerca neuroscientifica è chiara: il cervello umano risponde più fortemente a novità, emozioni intense, conferma identitaria. Non a verità verificata, argomentazione complessa, sfumature, dubbio.
Il medium — l’algoritmo — ha un’epistemologia. E quella epistemologia è incompatibile con il giornalismo tradizionale.
L’AUTONOMIA PERDUTA: GIORNALISTI INFLUENCER
Jill Abramson, executive editor del New York Times durante la transizione più turbolenta della storia del giornalismo, ha documentato in Merchants of Truth una mutazione ontologica: la trasformazione del giornalismo da istituzione civica a prodotto identitario.
Il contratto originale era chiaro. Il giornalismo del XX secolo aveva un mandato: essere il watchdog del potere, fare gatekeeping informativo, costruire consenso pubblico basato su fatti verificati. I giornali erano business con una missione che trascendeva il profitto. Esisteva un firewall sacro — fisico, simbolico, inviolabile — tra redazione e reparto commerciale.
Abramson ricorda il momento in cui un top editor del Times poteva rifiutarsi di incontrare un executive pubblicitario nella newsroom. La separazione fisica incarnava la separazione etica: riportare la verità vs. vendere spazi pubblicitari.
Questa separazione incarnava quello che Bourdieu chiamava “autonomia del campo”: la capacità di un campo sociale di definire i propri criteri di valutazione indipendentemente dalla logica economica o politica. Il giornalismo poteva permettersi di non pubblicare una storia perché “non verificata abbastanza”, anche se avrebbe generato vendite enormi.
Il modello economico sosteneva quella separazione. Abbonamenti stabili più pubblicità generalista generavano ricavi prevedibili. I lettori pagavano per credibilità istituzionale. La lentezza del ciclo produttivo — un’edizione al giorno — permetteva fact-checking rigoroso, editing multi-livello, accountability strutturale.
L’INVASIONE: DALLA VERITÀ ALL’ENGAGEMENT – GIORNALISTI INFLUENCER
BuzzFeed e VICE arrivarono come eretici.
Jonah Peretti, fondatore di BuzzFeed, concepiva il web non come “repository di informazioni” ma come “aggregato di emozioni umane”. Per lui, internet era sentimentale, non razionale. BuzzFeed non era un news site — era una technology company che usava i dati per capire cosa fa vibrare le persone emotivamente, poi produceva contenuti ottimizzati per quella vibrazione.
Lo shift era radicale: dalla verità all’engagement come metrica suprema.
Questa trasformazione rappresenta quello che Castells chiamava il passaggio dal “power of identity” al “identity of power”. Non più: chi sei determina quale potere hai. Ma: quale rete di connessioni hai determina chi puoi diventare. BuzzFeed non costruiva autorità attraverso credenziali istituzionali, ma attraverso viralità. Il potere non veniva dall’alto ma dalla rete.
BuzzFeed iniziò con listicles e quiz. Dietro quella superficie infantile: sofisticazione tecnica letale. A/B testing ossessivo. Analytics real-time. Comprensione profonda della diffusione virale. Peretti aveva mappato il “Bored at Work Network” — l’ecosistema della procrastinazione in ufficio.
Poi il twist: con i soldi dei quiz su Harry Potter, Peretti assunse giornalisti investigativi. Risultato: Pulitzer Prize 2021 per un’inchiesta sui campi di rieducazione nello Xinjiang.
Il paradosso era completo: l’azienda nata dalla negazione del giornalismo tradizionale produceva giornalismo migliore di molti legacy media.
Ma l’autonomia del campo era distrutta. Ora la logica economica dell’engagement determinava cosa poteva esistere. Il giornalismo investigativo sopravviveva solo come effetto collaterale della viralità. Subordinato. Parassitario.
IL CAPITALISMO DELLA SORVEGLIANZA: LA MERCIFICAZIONE DELL’ESPERIENZA
Shoshana Zuboff, in The Age of Surveillance Capitalism, ha teorizzato un nuovo ordine economico che rivendica l’esperienza umana come materia prima gratuita per pratiche commerciali di estrazione, previsione e vendita.
Le piattaforme digitali non vendono contenuti. Vendono previsioni comportamentali.
Funziona così:
Estrazione: ogni click, scroll, pausa, like viene registrato. Non solo cosa clicchi, ma come lo fai. Velocità di scroll. Tempo di esitazione. Pattern di attenzione. Espressioni facciali. Tono di voce.
Analisi predittiva: machine learning analizza questi dati per creare modelli comportamentali. Non ti conosce come individuo. Ti conosce come pattern statistico. Ma quel pattern predice con accuratezza crescente cosa farai, cosa comprerai, come voterai.
Mercificazione: queste previsioni vengono vendute. Non a te. A inserzionisti, marketer, campagne politiche. Il prodotto non sei tu. Il prodotto è la capacità di modificare il tuo comportamento futuro.
Zuboff lo chiama “behavioral surplus” — il surplus comportamentale. Le piattaforme estraggono dati molto oltre ciò che è necessario per fornire il servizio, e usano quel surplus per creare prodotti predittivi venduti a terzi.
Risultato: il tuo feed non è progettato per informarti. È progettato per modificarti.
Non ti mostra cosa è vero. Ti mostra cosa ti tiene sulla piattaforma. E cosa ti rende prevedibile.
Questo spiega perché contenuti polarizzanti, emotivamente estremi, identitariamente tribali dominano i feed. Non perché le piattaforme abbiano agenda politica. Ma perché quel tipo di contenuto genera pattern comportamentali più prevedibili. Utenti polarizzati sono utenti più profilabili. Più vendibili.
Questa logica si connette direttamente all’analisi di Postman: quando l’epistemologia del medium (algoritmo ottimizzato per engagement) incontra l’economia dell’estrazione comportamentale (capitalismo della sorveglianza), il risultato è inevitabile. Il giornalismo tradizionale — lento, costoso, verificato, orientato alla verità — diventa strutturalmente svantaggiato.
VERITÀ E VISIBILITÀ: QUANDO I BASTIONI CROLLANO
Abramson documenta con precisione come il New York Times e il Washington Post — fortezze dell’obiettività giornalistica — abbiano trasformato la propria natura per sopravvivere.
New York Times, era Trump: le subscription esplodono. Ma non per giornalismo obiettivo. Per resistenza identitaria. Lo slogan implicito diventa: leggi il Times perché condividi i nostri valori anti-Trump. Il tone editoriale si fa più duro, adversarial, emotivamente coinvolto. Il giornale costruisce una community attorno a una prospettiva dichiarata.
Questa trasformazione rappresenta quello che Bourdieu chiamava “eteronomia del campo”: quando la logica interna di un campo viene subordinata a logiche esterne. Il Times doveva scegliere: mantenere l’autonomia e morire economicamente, o abbracciare l’eteronomia e sopravvivere.
Scelse la sopravvivenza.
Abramson coglie il dilemma: “La distanza dispassionata che alcuni lettori, specialmente i più anziani, credevano avesse dato ai brand nazionali la loro autorità stava erodendo.”
Il Times non riporta più fatti neutrali. Riporta fatti con prospettiva, costruisce tribù attorno a quella prospettiva. E questo funziona nel modello subscription perché le persone non cercano informazioni per formare opinioni — cercano informazioni che confermano opinioni già formate.
Per sopravvivere economicamente, i legacy media dovevano diventare emotional brands. E tradivano così il mandato di neutralità che li rendeva autorevoli.
Questo conferma la teoria di Castells sulla “mass self-communication”: nella network society, i vecchi gatekeeper sopravvivono solo diventando nodi particolarmente influenti della rete.

LA POST-INTERMEDIAZIONE DELLA VERITÀ
Qui si inserisce il contributo fondamentale di Fausto Colombo, che nel 2017 ha teorizzato il concetto di “post-intermediazione della verità” (The Post-Intermediation of Truth: Newsmaking from Media Companies to Platform).
Colombo, sociologo italiano della comunicazione recentemente scomparso (1955-2025), ha dedicato la sua carriera allo studio della digitalizzazione e delle sue trasformazioni sociali. Nel suo lavoro ha mappato con precisione il passaggio da un sistema dove le istituzioni mediali facevano da intermediari — verificando, contestualizzando, gerarchizzando l’informazione — a un sistema dove le piattaforme digitali hanno smantellato questa intermediazione senza sostituirla con nulla di equivalente.
La post-intermediazione non significa assenza di mediazione. Significa che la mediazione è ora operata da algoritmi proprietari che non seguono criteri giornalistici ma criteri di engagement. Le piattaforme non verificano la verità — curano la visibilità. Non gerarchizzano in base all’importanza pubblica — gerarchizzano in base alla probabilità di interazione.
In Ecologia dei Media: Manifesto per una Comunicazione Gentile (2020), Colombo sviluppa ulteriormente questa analisi attraverso una metafora potente: l’inquinamento informativo. Come i rifiuti industriali inquinano l’ambiente fisico, contenuti falsi, polarizzanti e tossici inquinano il nostro “ecosistema mediatico” — l’ambiente simbolico in cui viviamo e attraverso cui comprendiamo il mondo.
Questo ecosistema inquinato produce quello che Colombo chiama “post-verità”: non semplicemente notizie false, ma uno specifico modo di ideazione, creazione e diffusione di informazioni dove la distinzione tra vero e falso diventa irrilevante. Ciò che conta è la viralità, l’impatto emotivo, la capacità di generare engagement.
L’ERA DEI GIORNALISTI INFLUENCER
La categoria “giornalista” è esplosa in mille frammenti.
Johnny Harris: 3.6 milioni di subscriber su YouTube. Ex-Vox, ora indipendente. Produce video-essay di geopolitica con production value da documentario Netflix. Budget medio: $50K per video. Team di 10 persone. Ricavi da sponsorizzazioni dirette: oltre $100K per video. Zero editor esterni. Zero fact-checker istituzionale. È simultaneamente ricercatore, scrittore, narratore, editor, publisher.
I Substackers milionari: Matt Taibbi, Glenn Greenwald, Bari Weiss. Migliaia di subscriber paganti $5-10 al mese. Scrivono quando vogliono, senza filtri editoriali. Sono giornalisti, editorialisti, media companies.
Joe Rogan: 11+ milioni di ascoltatori per episodio. Deal Spotify da oltre $200 milioni. Ogni episodio — 2-3 ore di conversazione non editata — raggiunge più persone di qualsiasi talk show TV. Invita scienziati, politici, comedians, figure controverse. Non c’è fact-checking real-time. Non finge neutralità. Ammette ignoranza, cambia idea, corregge errori in episodi successivi.
TikTok News Creators: teenager con 5+ milioni di follower. Spiegano guerre, economia, politica in 60 secondi. Format: over-simplification necessaria, riferimenti visivi accattivanti. La Gen Z si informa così. Non legge articoli da 2000 parole. Consuma info in micro-dosi video.
Questi creator incarnano perfettamente la profezia di Postman: l’informazione è diventata completamente indistinguibile dall’intrattenimento. Non perché i creator siano superficiali, ma perché il medium lo richiede.
Un video YouTube di 20 minuti su geopolitica deve: catturare attenzione nei primi 3 secondi, mantenere ritmo visivo costante, usare musica e grafica accattivanti, semplificare complessità in narrative comprensibili, offrire chiusura emotiva e narrativa.
Queste non sono scelte creative. Sono requisiti algoritmici. Se non le segui, l’algoritmo non promuove il video. E se l’algoritmo non promuove, non esisti.
- Reuters Institute Digital News Report 2024: 55% degli under-35 nei paesi occidentali si informa principalmente tramite social media
- TikTok è la seconda fonte di news per la Gen Z dopo Google
- Un video virale su TikTok con 50 milioni di views raggiunge più persone di un mese intero di front-page del New York Times
- I top creator YouTube guadagnano $50K-500K per video sponsored — più dello stipendio annuale di un giornalista senior tradizionale
VERITÀ E INFORMAZIONE: IL PARADOSSO DELL’AUTENTICITÀ
Silverstone teorizzò che tutta la comunicazione mediatica è mediazione: qualcuno seleziona, filtra, presenta la realtà secondo determinati criteri. La mediazione è inevitabile. La domanda è: quali criteri usa, e chi li controlla?
Nel giornalismo tradizionale, la mediazione era visibile e istituzionale. Sapevi che c’era un editor, un fact-checker, una linea editoriale. La mediazione era dichiarata.
Nel creator content, la mediazione è invisibile e individualizzata. Il creator sembra mostrarti la realtà non filtrata. Ma quella “autenticità” è costruita meticolosamente: frame scelti con cura, momenti editati strategicamente, personalità calibrata per appeal, contenuto ottimizzato per algoritmo.
La mediazione è più potente perché non la vedi. E non la metti in discussione perché ti senti in relazione personale con il creator.
Silverstone chiamava questo “proper distance”: la distanza appropriata che i media dovrebbero mantenere tra noi e gli eventi — abbastanza vicini da coinvolgerci emotivamente, abbastanza lontani da permetterci riflessione critica.
Il creator content ha collassato quella distanza. Ti senti amico del creator. E non metti in discussione gli amici allo stesso modo in cui metti in discussione le istituzioni.
Ma simultaneamente: nessuna accountability istituzionale. Nessun editor. Nessun legal review. Nessun fact-checker. Gli errori, al massimo, generano una “correction” nel video successivo. Nessuna conseguenza professionale reale.
Molti creator sono più trasparenti dei media tradizionali. Non fingono obiettività. Dichiarano i propri bias. Mostrano i processi. Ammettono errori pubblicamente. Interagiscono direttamente con l’audience senza filtri PR.
Questa autenticità percepita è una forma di mediazione ancora più potente. E solleva una domanda: è preferibile la trasparenza individuale senza accountability, o l’accountability istituzionale con opacità?
L’INVASIONE DELLE FAKE REALITY
Mentre il giornalismo tradizionale collassa e gli influencer conquistano lo spazio informativo, sta emergendo una minaccia ancora più radicale: la disintegrazione del concetto stesso di “prova”.
Per secoli, il giornalismo si è fondato su un’epistemologia semplice: le prove esistono. Foto, video, documenti, testimonianze. Il lavoro del giornalista era verificarle, contestualizzarle, presentarle.
Quella certezza è morta.
Novembre 2023: circola un video di Zelensky che annuncia la resa dell’Ucraina. Voce perfetta. Movimenti labiali sincronizzati. È un deepfake. Ma prima che venga smentito ufficialmente, viene visto da milioni di persone.
Marzo 2024: una foto di Trump arrestato dalla polizia di New York diventa virale. Dettagli perfetti. È generata da Midjourney. L’arresto non è mai avvenuto.
Giugno 2024: audio deepfake di Biden che usa insulti razzisti circola su X. Algoritmi lo spingono perché genera engagement. Quando arriva il fact-check, il danno è fatto.
Settembre 2024: influencer su TikTok condividono “leak” di documenti governativi su programmi di sorveglianza. I documenti sono generati da GPT-4 con prompt engineering sofisticato. Sembrano autentici. Font corretti. Formattazione ufficiale. Linguaggio burocratico. Tutto falso.
Siamo entrati in quello che Zuboff chiamerebbe “fase estrattiva della simulazione”: le piattaforme hanno accumulato così tanti dati comportamentali che possono ora generare simulazioni indistinguibili dalla realtà. Non solo prevedere il comportamento umano, ma sintetizzarlo.
La tecnologia dell’inganno è democratizzata. Creare deepfake convincenti non richiede più team specializzati e budget hollywoodiani. Basta un laptop e 20 minuti di tutorial YouTube.
GPT-4, Claude, Gemini: producono testi indistinguibili da quelli umani. Possono generare “articoli giornalistici” completi — con tone neutrale, citazioni plausibili, struttura narrativa coerente — in secondi. Possono creare intere reti di fake news interconnesse, ciascuna con dettagli che supportano le altre, costruendo ecosistemi di disinformazione autoreferenziali.
Stiamo entrando in un’epoca dove nulla è verificabile con certezza. Ogni foto potrebbe essere fake. Ogni video potrebbe essere manipolato. Ogni audio potrebbe essere sintetico. Ogni documento potrebbe essere generato. E la capacità di distinguere — anche per esperti — sta diventando impossibile.
L’ECONOMIA DELLA MENZOGNA
C’è un motivo per cui fake news e deepfake proliferano: funzionano. E funzionano perché il capitalismo della sorveglianza li premia.
Gli algoritmi delle piattaforme social sono ottimizzati per una cosa sola: engagement. Non accuratezza. Non veridicità. Non beneficio sociale. Solo: quanto tempo tieni gli utenti sulla piattaforma. Quanti click. Quante condivisioni. Quanti commenti.
La ricerca è inequivocabile: le fake news generano più engagement delle notizie verificate.
Studio MIT 2018: le fake news si diffondono 6 volte più velocemente delle notizie vere su Twitter. Raggiungono più persone. Generano più interazioni. Perché? Perché sono ottimizzate per l’emozione. Sorpresa. Indignazione. Paura. Rabbia.
Questo conferma la teoria di Zuboff: il capitalismo della sorveglianza non ha preferenze per vero o falso. Ha preferenze per predicibile e redditizio.
Le notizie vere sono spesso complesse. Sfumate. Richiedono contesto. Le fake news sono semplici. Definitive. Confermano bias esistenti. Generano pattern comportamentali più forti e più monetizzabili.
L’algoritmo premia il falso non per scelta ideologica, ma per logica sistemica.
E questo crea un’economia perversa:
Content farms in Macedonia, Filippine, Romania: producono fake news ottimizzate per engagement. Guadagnano tramite pubblicità programmatica. Un articolo virale può generare $10K-50K in revenue. Zero costi di verifica.
Influencer della disinformazione: account con milioni di follower che condividono sistematicamente contenuti non verificati. Monetizzano tramite sponsorizzazioni, vendita corsi, link affiliazione. Esempio: Alex Jones faceva $50M+ annui vendendo integratori al suo pubblico. Il contenuto — teoria del complotto — era solo il funnel.
State actors: Russia, Cina, Iran usano fake news come arma geopolitica. Costo di produzione: minimo. Impatto: destabilizzare democrazie, influenzare elezioni, seminare sfiducia. ROI: immenso.
Confronta con l’economia del giornalismo verificato:
New York Times: spende milioni in investigazioni. Mesi di lavoro. Team di fact-checker. Legal review. Articolo pubblicato raggiunge, se va bene, centinaia di migliaia di persone.
Fake news virale: prodotta in ore. Zero verifica. Raggiunge decine di milioni. Costa nulla. Genera revenue immediate.
Nel mercato dell’attenzione governato dal capitalismo della sorveglianza, il giornalismo serio è strutturalmente svantaggiato.
Zuboff lo spiega: “Il capitalismo della sorveglianza rivendica unilateralmente l’esperienza umana come materia prima gratuita”. E quando l’esperienza umana è materia prima, ciò che conta non è la qualità dell’esperienza ma la quantità dell’estrazione.
La verità è costosa da produrre. La menzogna è gratuita. E il mercato sceglie l’efficienza.
LA DESERTIFICAZIONE INFORMATIVA: LA FINE DELLA VERITÀ
Mentre influencer e disinformazione prosperano, il giornalismo tradizionale sta vivendo un’estinzione di massa.
USA, 2005-2024: oltre 2,900 giornali chiusi o mergiati. Intere aree del paese senza copertura giornalistica locale — i “news deserts”.
Newsroom jobs: crollati del 57% tra 2008 e 2024.
Italia, 2008-2023: occupati nel settore editoriale da ~180,000 a ~100,000.
BuzzFeed News: vincitore di Pulitzer, chiuso nel 2023. Non era sostenibile economicamente.
VICE Media: valutata $5.7 miliardi nel 2017. Bancarotta nel 2023.
Questi numeri rappresentano quello che Bourdieu chiamava “la perdita di autonomia del campo”. Quando un campo sociale perde la capacità di finanziarsi secondo la propria logica interna, deve subordinarsi a logiche esterne.
Il giornalismo come campo autonomo sta collassando. E con esso collassa la possibilità stessa di un discorso pubblico basato su fatti verificati indipendentemente da chi avvantaggiano.
I sopravvissuti usano tre strategie di adattamento — ciascuna rappresenta una forma diversa di eteronomia:
Subscription Model + Tribal Identity
Times, Post, Financial Times vendono appartenenza, non notizie. I subscriber non pagano per “sapere cosa succede”. Pagano per sentirsi parte di una comunità educata. Per segnalare status culturale. Per supportare valori editoriali condivisi.
Funziona. Ma trasforma i giornali in lifestyle brands. Il contenuto diventa identitario. L’obiettività viene sacrificata per la retention.
Bourdieu lo spiegherebbe così: il capitale simbolico viene convertito in capitale economico attraverso la costruzione di habitus — disposizioni condivise, gusti, modi di vedere il mondo. Il Times non vende informazione, vende l’habitus della classe educata cosmopolita liberal.
Questo funziona economicamente, ma distrugge la funzione sociale del giornalismo. Un habitus non può includere tutti. Per definizione, esclude. E quando i media diventano marcatori di habitus, cessano di essere infrastruttura condivisa.
Clickbait Sofisticato + SEO Optimization
Anche Times e Post ora scrivono titoli per l’algoritmo di Google e per i social shares. Non clickbait volgare. Ottimizzazione per engagement:
- “Trump fa X: perché è devastante” (emotional hook)
- “5 cose da sapere su Y” (list format, Google preferisce)
- Breaking news alerts ottimizzate per notification clicks
Questa è subordinazione diretta alla logica algoritmica — l’eteronomia più pura. Il contenuto non è più prodotto secondo criteri giornalistici ma secondo criteri di visibilità algoritmica.
Postman l’avrebbe chiamata “tecnopoly”: il momento in cui la tecnologia smette di essere strumento e diventa ambiente che determina tutti i valori. Non usiamo l’algoritmo per distribuire giornalismo. L’algoritmo determina cosa può essere giornalismo.
Attivismo Mascherato da Giornalismo
Abramson documenta lo shift più controverso: molti giovani giornalisti vedono il proprio ruolo non come neutral observer ma come activist per la giustizia sociale.
La battaglia interna alle newsroom: è dovere dare voce a gruppi marginalizzati? O riportare fatti neutralmente indipendentemente da chi avvantaggiano?
La generazione TikTok/Instagram ha interiorizzato un principio: non puoi essere neutrale su questioni morali. La neutralità è complicità. Il giornalismo deve stare dalla parte giusta della storia.
Problema: chi decide quale è la parte giusta? Quando ogni testata sceglie la propria parte, scompare lo spazio condiviso di verità fattuale.
L’ASSIMILAZIONE FUNZIONALE: GIORNALISTI INFLUENCER
Sta accadendo qualcosa di più radicale della semplice crisi economica: la funzione sociale del giornalismo viene assorbita da altre forme.
Castells lo descriverebbe come “convergenza mediale”: non solo tecnologica ma funzionale. Le distinzioni tra giornalismo, intrattenimento, marketing, attivismo, propaganda collassano in un continuum indistinguibile.
Brand Journalism: Red Bull Media House produce documentari su sport estremi con qualità da Oscar. Patagonia finanzia inchieste sul climate change. Non sono pubblireportage. Sono contenuti giornalistici di qualità, con agenda aziendale. I lettori li consumano come news.
Questo rappresenta quello che Zuboff chiamerebbe “estensione del capitalismo della sorveglianza nel dominio narrativo”. Non basta estrarre dati comportamentali. Ora si estraggono le funzioni culturali — come la produzione di significato condiviso — e si privatizzano. Il brand non vende prodotto. Vende il frame cognitivo attraverso cui comprendi il mondo.
Nell’era digitale, la forma del giornalismo può essere replicata da chiunque. Layout di articolo. Format video. Tone neutrale. Senza gatekeeping istituzionale, cosa distingue il giornalismo dalla propaganda ben confezionata?
IL BIOPOTERE ALGORITMICO
Gli algoritmi delle piattaforme rappresentano una forma inedita di biopotere digitale.
Non governano i corpi fisici. Governano l’attenzione, le emozioni, le credenze, i desideri. Operano a livello di quella che Byung-Chul Han chiama “psicopolitica”.
E lo fanno con precisione chirurgica:
Profilazione psicometrica: Cambridge Analytica ha dimostrato che con 300 like Facebook puoi predire personalità meglio di un coniuge.
Emotional contagion: Facebook ha dimostrato (controverso esperimento 2014) che manipolando i contenuti nel feed può indurre stati emotivi specifici.
Nudging algoritmico: YouTube ti “raccomanda” il prossimo video in modo da massimizzare watch time, progressivamente modificando i tuoi pattern di consumo.
Questo non è controllo esplicito. È governo attraverso la modulazione dell’ambiente informativo. Foucault lo chiamava “gouvernementalité” — governamentalità. Non ti dicono cosa fare. Strutturano lo spazio delle possibilità in modo che tu scelga “liberamente” ciò che vogliono.
E la cosa più inquietante: questo biopotere algoritmico opera completamente al di fuori della sfera democratica.
Nessuno ha votato per gli algoritmi. Nessun parlamento li regola efficacemente. Nessuna costituzione li limita. Sono proprietà privata di corporation che operano secondo logica estrattiva di profitto.
Eppure determinano:
- Cosa milioni di persone vedono (e quindi cosa sanno)
- Cosa credono (attraverso selezione di contenuti)
- Come si sentono (attraverso emotional engineering)
- Come votano (attraverso targeting politico)
Non stiamo assistendo semplicemente alla crisi di un’industria. Stiamo assistendo alla disintegrazione dell’infrastruttura epistemica che rendeva possibile la democrazia moderna.
VERITÀ E DEMOCRAZIA: LA PARRESIA NELL’ERA DIGITALE
Colombo riprende uno dei concetti più potenti dell’ultimo Foucault: la parresia — il dire-la-verità, il parlar-franco. Nell’antica Grecia, la parresia era la pratica di dire la verità anche quando questa comportava rischi personali, anche quando metteva in discussione il potere, anche quando disturbava la tranquillità sociale.
Foucault aveva identificato un paradosso fondamentale: democrazia e verità si necessitano reciprocamente, ma si mettono anche vicendevolmente in pericolo.
Non vi è discorso vero senza democrazia: solo in una società libera puoi dire la verità senza essere immediatamente repressi. Solo quando esiste pluralismo di voci la verità può emergere attraverso il confronto critico.
Ma il discorso vero introduce differenze nella democrazia: quando qualcuno dice la verità — verità scomoda, che disturba, che contraddice l’opinione maggioritaria — crea tensione. La democrazia può reagire silenziando quella voce. L’isegoria (diritto di parola per tutti) può degenerare in “dittatura dell’opinione” dove ogni voce vale uguale indipendentemente dalla competenza, dalla verifica, dalla connessione con i fatti.
Non vi è democrazia senza discorso vero: una democrazia che non ha accesso a verità verificate non può prendere decisioni razionali. Diventa manipolabile, instabile, incapace di auto-correzione.
Ma la democrazia minaccia l’esistenza stessa del discorso vero: quando l’opinione domina, quando il populismo premia chi dice ciò che la maggioranza vuole sentire piuttosto che ciò che è vero, il dire-la-verità diventa politicamente svantaggioso.
Colombo applica questo framework all’ecosistema digitale contemporaneo e la diagnosi è devastante.
Nell’era delle piattaforme:
- La parresia è stata sostituita dalla performance identitaria. Non dici la verità — performi la tua appartenenza tribale.
- L’isegoria si è trasformata in “anarchia epistemica”. Tutti hanno diritto di parola, ma nessuno ha più autorità epistemica riconosciuta. L’opinione di un virologo e quella di un no-vax hanno la stessa visibilità algoritmica se il no-vax genera più engagement.
- La democrazia deliberativa — basata sul confronto razionale tra cittadini che discutono gli stessi fatti — è impossibile quando ogni tribù vive in una bolla algoritmica separata con fatti alternativi.
Colombo identifica tre dinamiche perverse:
1. La tecnocrazia come fuga dalla politica
Di fronte alla confusione epistemica, cresce la tentazione tecnocratica: “Lasciamo decidere gli esperti”. “La scienza dice…”. “I dati mostrano…”.
Ma questo è un tradimento della democrazia. La tecnocrazia nega la dimensione politica — la necessità di scegliere tra valori in conflitto, di bilanciare interessi legittimi ma incompatibili, di decidere collettivamente come vogliamo vivere.
Gli esperti possono dire quali sono le conseguenze probabili di diverse scelte. Non possono dire quale scelta è “giusta” in senso politico-morale.
La pandemia COVID ha reso visibile questo problema: esperti in disaccordo tra loro, dati ambigui, necessità di bilanciare salute pubblica e libertà individuali, economia e sicurezza sanitaria. Non c’era una “risposta scientifica”. C’erano scelte politiche da fare democraticamente.
Ma quando la sfera pubblica è inquinata da fake news, teorie del complotto, polarizzazione estrema, come può funzionare la deliberazione democratica?
2. Il populismo come anti-parresia
Il populismo promette verità semplici contro élite che mentono. “Io dico le cose come stanno”. “La gente lo sa”. “Il senso comune contro i professoroni”.
Ma questo è il contrario della parresia. La parresia foucaultiana comporta rischio personale per dire verità scomode. Il populista non rischia nulla — cavalca l’emozione popolare, conferma pregiudizi esistenti, alimenta risentimenti.
Il populista non dice la verità al potere. Dice al popolo ciò che il popolo vuole sentire. E chiama questo “autenticità”.
Nel sistema algoritmico, il populismo è premiato strutturalmente. Contenuti che confermano credenze esistenti generano più engagement. Contenuti che semplificano complessità circolano meglio. Contenuti che polarizzano creano più interazioni.
3. L’individualismo come disgregazione del politico
L’individualismo contemporaneo — potenziato dalla retorica delle piattaforme (“esprimi te stesso”, “la tua verità”, “la tua voce conta”) — dissolve la dimensione politica in una cacofonia di verità personali.
Non esiste più “la verità” ma solo “la mia verità”. Non esiste più “il bene comune” ma solo “il mio diritto di scegliere”. Non esiste più “noi” ma solo “io”.
Byung-Chul Han chiamerebbe questo l'”atomizzazione della società della prestazione”. Ognuno imprenditore di se stesso, in competizione con tutti, senza più solidarietà o appartenenza collettiva.
Ma la democrazia richiede “noi”. Richiede la capacità di vedere l’altro non come nemico o concorrente ma come co-cittadino con cui costruire un mondo comune. Richiede la disponibilità a sacrificare occasionalmente il proprio interesse per il bene collettivo.
Le bolle algoritmiche rendono questo impossibile. Non vediamo più “l’altro”. Vediamo solo la nostra tribù e le tribù nemiche.
Riconoscere che l’inquinamento informativo non è problema individuale (“io so distinguere le fake news”) ma problema collettivo che richiede azione pubblica. Come non accettiamo che le industrie inquinino fiumi e aria, non dovremmo accettare che le piattaforme inquinino l’infosfera.
IL PARADOSSO FINALE: QUANDO IL MEGAFONO BATTE LA CREDENZIALE
Castells lo chiamava “network power”: nella network society, il potere non risiede nei nodi (individui, istituzioni) ma nelle connessioni e nei protocolli che governano il flusso informativo. Chi controlla gli algoritmi che determinano la visibilità controlla quali versioni della realtà circolano.
Nell’economia dell’attenzione governata dal capitalismo della sorveglianza, la credenziale istituzionale conta meno del megafono algoritmico.
Un report investigativo del Times visto da 100,000 persone ha meno impatto reale di un thread virale su X di un account anonimo visto da 50 milioni.
E quando il megafono dipende da algoritmi proprietari ottimizzati per engagement, non per accuratezza, il giornalismo tradizionale — lento, costoso, verificato — è strutturalmente svantaggiato.
Zuboff aggiunge: “Il potere strumentale del capitalismo della sorveglianza non si limita a sapere cosa faremo. Mira a determinare cosa faremo”. Gli algoritmi non riflettono le nostre preferenze informative. Le costruiscono. Ci addestrano, progressivamente, a consumare contenuti che generano più behavioral surplus.
La domanda non è più: è vero?
La domanda è: quante persone lo vedranno?
E quella domanda è controllata da sistemi algoritmici proprietari che nessuno — né giornalisti, né cittadini, né regolatori — comprende veramente o controlla.
Questo rappresenta il fallimento completo del modello descritto da Silverstone. Il mediapolis come spazio condiviso dove culture diverse negoziano significati comuni non esiste più. È stato sostituito da quello che potremmo chiamare “algoritmo-polis” — uno spazio frammentato in bolle, governato da logiche opache, ottimizzato per estrazione di valore, completamente estraneo ai principi di dibattito pubblico razionale.
LA SOCIETÀ DELLA PRESTAZIONE E IL CONSUMO IDENTITARIO
Byung-Chul Han ha teorizzato il passaggio dalla “società disciplinare” di Foucault alla “società della prestazione”. Per Foucault, la società disciplinare funzionava attraverso istituzioni che imponevano norme dall’esterno. Il potere diceva: “Devi”.
Han sostiene che nella società contemporanea il potere funziona diversamente. Non dice più “devi”. Dice: “Puoi”. Libertà illimitata. Autorealizzazione. Ottimizzazione. La società della prestazione ti chiede di essere imprenditore di te stesso.
Ma questa libertà è una trappola più sofisticata. Lo sfruttamento non viene più dall’esterno, viene interiorizzato. Ti sfrutti da solo, volontariamente, nella corsa infinita all’ottimizzazione e alla performance.
Come si collega al giornalismo e all’informazione?
Nella società della prestazione, anche il consumo informativo diventa performance. Non leggi per capire. Leggi per segnalare. Per performare la tua identità. Per ottimizzare il tuo capitale culturale.
- Condividi l’articolo del Times su LinkedIn: performance di competenza professionale.
- Condividi thread virale su X: performance di allineamento tribale.
- Guardi video YouTube di geopolitica: performance di cittadino informato.
- Scorri TikTok: performance di appartenenza generazionale.
L’informazione non è più mezzo per conoscenza. È diventata strumento di costruzione identitaria performativa.
E in questo contesto, l’accuratezza diventa irrilevante. Ciò che conta è: questo contenuto mi permette di performare l’identità che voglio proiettare?
Han scrive: “La società della prestazione produce depressione e burnout”. E lo stesso vale per il consumo informativo. L’overload informativo costante, la necessità di essere sempre aggiornati, di avere opinioni su tutto, di rispondere immediatamente a ogni breaking news — non è libertà. È esaurimento.
Il giornalismo lento, riflessivo, verificato richiedeva tempo. Pause. Riflessione critica. Era incompatibile con la società della prestazione. E per questo sta morendo.
Questa analisi si connette direttamente alla critica di Postman: quando l’informazione diventa intrattenimento (Postman), e simultaneamente diventa performance identitaria (Han), e viene estratta come behavioral surplus (Zuboff), e circolata attraverso algoritmi opachi (Castells), e perde ogni autonomia di campo (Bourdieu), e non può più costruire proper distance (Silverstone), il risultato è inevitabile.
Il giornalismo come lo conoscevamo non può sopravvivere in questo ecosistema.
VIVERE NELL’ECLISSI
Siamo tornati al punto di partenza. La tua realtà è una bolla.
Ma ora capisci la profondità del problema. Non è solo crisi del giornalismo. È crisi epistemologica. Crisi del mediapolis. Crisi dell’autonomia culturale. Crisi della possibilità stessa di spazio pubblico condiviso.
Neil Postman ci aveva avvertiti: quando l’informazione diventa intrattenimento,perdiamo la capacità stessa di ragionamento pubblico. E senza quella capacità, la democrazia è impossibile.
Pierre Bourdieu ci aveva avvertiti: quando i campi perdono autonomia, quando la logica economica subordina ogni altro valore, la cultura diventa merce. E quando l’informazione diventa merce ottimizzata per engagement, la verità diventa irrilevante.
Manuel Castells ci aveva avvertiti: nella network society, il potere risiede nei protocolli che governano i flussi. Chi controlla le infrastrutture di comunicazione controlla cosa può essere detto, pensato, immaginato. E quelle infrastrutture sono ora proprietà privata.
Shoshana Zuboff ci ha avvertiti: il capitalismo della sorveglianza non si accontenta di estrarre dati. Vuole modificare il comportamento. E sta costruendo infrastrutture di modificazione comportamentale su scala mai vista nella storia umana. Completamente al di fuori del controllo democratico.
Michel Foucault ci aveva preparati: il potere moderno non reprime. Governa attraverso la modulazione dell’ambiente, la costruzione delle possibilità, la gestione delle popolazioni. Gli algoritmi sono l’ultima evoluzione di questo biopotere — invisibile, pervasivo, operante al livello della psiche stessa.
Byung-Chul Han ha completato il quadro: nella società della prestazione, anche la resistenza diventa performance. Anche la critica diventa merce. Anche l’informazione diventa strumento di costruzione identitaria. E tutto questo produce esaurimento, non liberazione.
La parresia — il dire-la-verità che comporta rischio ma fonda la democrazia — è ora strutturalmente impossibile. Non perché mancano persone coraggiose, ma perché l’ambiente algoritmico premia sistematicamente l’opposto: la conferma tribale, la semplificazione populista, la performance identitaria.
Jill Abramson, osservando da dentro il collasso, ha documentato non solo la fine di un’industria ma la fine di un contratto sociale. Il giornalismo del XX secolo incarnava un patto: esistono fatti verificabili, esiste una realtà condivisa, esiste la possibilità di dibattito razionale basato su evidenze.
Quel patto è rotto.
Non perché le persone abbiano smesso di volere la verità. Ma perché le strutture che permettevano di stabilire cosa è vero sono state dismesse, frammentate, o subordinate a logiche che non hanno nulla a che fare con la verità.
Gli influencer-giornalisti non hanno distrutto il giornalismo. Hanno semplicemente occupato lo spazio lasciato vuoto dal suo collasso. E lo hanno riempito con autenticità performativa, mediazione invisibile, e contenuti ottimizzati per algoritmi che premiano l’engagement sulla verifica.
Le fake news e i deepfake non hanno creato la crisi epistemologica. Hanno semplicemente reso visibile ciò che era già vero: in un ambiente dove la forma può essere perfettamente replicata senza il contenuto, dove l’apparenza è indistinguibile dalla realtà, la verifica diventa impossibile.
Il capitalismo della sorveglianza non ha corrotto l’informazione. Ha semplicemente rivelato che in un’economia dove l’attenzione è la risorsa scarsa e il comportamento è il prodotto, l’informazione accurata è strutturalmente svantaggiata rispetto all’informazione coinvolgente.
La domanda non è se possiamo salvare il giornalismo tradizionale. Non possiamo. Non nell’era delle bolle algoritmiche, del capitalismo della sorveglianza, della società della prestazione, e del biopotere digitalizzato.
La domanda è: possiamo costruire qualcosa di nuovo che faccia quello che il giornalismo faceva?
Creare spazio condiviso di verità. Tenere il potere sotto controllo. Fornire informazione verificata che permetta decisioni democratiche. Mantenere quella “proper distance” che Silverstone considerava essenziale per la civiltà.
La risposta onesta è: non lo sappiamo. E forse no.
Le forze strutturali che hanno distrutto il giornalismo tradizionale non stanno rallentando. Stanno accelerando. L’AI generativa rende la produzione di contenuti falsi ancora più facile. Gli algoritmi diventano ancora più sofisticati nell’estrazione e modificazione comportamentale. Le bolle si induriscono. La polarizzazione si intensifica, mentre siamo sempre più uguali e frammentati.
VIviamo in in realtà parallele, consumando informazioni ottimizzate per confermare ciò che già credono, connesse solo attraverso guerre culturali, senza più uno spazio condiviso dove negoziare significati comuni.
Forse questo è semplicemente il prezzo della network society. Forse la frammentazione è inevitabile. Forse l’idea stessa di una sfera pubblica unificata era un’anomalia storica, possibile solo nel breve periodo in cui i media di massa dominavano ma non erano ancora stati frammentati dalla digitalizzazione.
Forse il mediapolis di Silverstone era un’utopia. Forse la razionalità comunicativa era sempre stata una finzione. Forse l’autonomia del campo era sempre stata precaria. Forse il giornalismo obiettivo era sempre stato una costruzione ideologica mascherata da neutralità.
Ma anche se così fosse, anche se tutto questo fosse vero, rimane il fatto che quella finzione funzionava. Quella costruzione permetteva dibattito. Quella precarietà sosteneva democrazia.
E ora non abbiamo nemmeno quella finzione condivisa.
Ogni mattina apri lo schermo. L’algoritmo ti serve il mondo.
Il tuo mondo.
Non quello vero.
E ogni giorno, quel mondo diventa un po’ più chiuso. Un po’ più tribale. Un po’ più impermeabile a ciò che lo contraddice. Un po’ più ottimizzato per tenerti engaged, modificarti, estrarre valore dalla tua attenzione.
Abbiamo algoritmi che non fingono di cercare la verità. Che non pretendono di servire il pubblico. Che operano secondo un solo criterio: estrazione di valore.
E nel mondo costruito da quegli algoritmi, la verità non è ciò che è verificato. È ciò che circola. È ciò che engage. È ciò che ti tiene sulla piattaforma un minuto in più.
Questa è l’eclissi del vero.
Non sappiamo quando — o se — tornerà la luce.
Basato su:
Merchants of Truth di Jill Abramson, integrato con Roger Silverstone (Why Study the Media?), Neil Postman (Amusing Ourselves to Death), Pierre Bourdieu (teoria dei campi e autonomia culturale), Manuel Castells (Communication Power, The Rise of the Network Society), Shoshana Zuboff (The Age of Surveillance Capitalism), Michel Foucault (biopotere e governamentalità), Byung-Chul Han (Psychopolitics, The Burnout Society), e Fausto Colombo (Verità e democrazia. Sulle orme di Michel Foucault, Ecologia dei media. Manifesto per una comunicazione gentile, The Post-Intermediation of Truth).
FONTI E RIFERIMENTI
- Jill Abramson – Merchants of Truth: The Business of News and the Fight for Facts (2019)
- Roger Silverstone – Why Study the Media? (1999)
- Neil Postman – Amusing Ourselves to Death: Public Discourse in the Age of Show Business (1985)
- Pierre Bourdieu – Teoria dei campi e del capitale simbolico
- Manuel Castells – Communication Power (2009)
- Manuel Castells – The Rise of the Network Society (1996)
- Shoshana Zuboff – The Age of Surveillance Capitalism: The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power (2019)
- Michel Foucault – Biopotere e Governamentalità
- Byung-Chul Han – Psychopolitics: Neoliberalism and New Technologies of Power (2017)
- Byung-Chul Han – The Burnout Society (2015)
- Fausto Colombo – Verità e democrazia. Sulle orme di Michel Foucault (2022)
- Fausto Colombo – Ecologia dei media. Manifesto per una comunicazione gentile (2020)
- Fausto Colombo, Simone Tosoni, Maria Francesca Murru – The Post-Intermediation of Truth: Newsmaking from Media Companies to Platform (2017)








